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Lazio, gli anni d’oro di Cragnotti: tra gioie, delusioni ed errori arbitrali

14 maggio 2000, Cragnotti ed Eriksson: "La Lazio sul tetto del mondo"

Lazio, gli anni a cavallo tra la fine del secolo scorso e l’inizio di questo sono stati i più belli nella storia del club biancoceleste

di Giovanni Calviello

Se negli anni 70 il duo Sbardella-Maestrelli era alla continua ricerca di giovani talentuosi lungo lo stivale italico, nel periodo d’oro di Cragnotti sì puntò tutto sulla concretezza e sulla qualità dei giocatori. In particolare furono fitti gli intrecci di mercato con la Sampdoria che portarono a Roma nel tempo Jugovic, Mihailovic, Mancini, Lombardo e Eriksson: quattro quinti della squadra campione d’Italia nel 2000 più un giocatore eccezionale dallo spiccato senso tattico quale Vlado.

L’arrivo di questi giocatori si dipanò nel tempo iniziando dall’ anno nel quale arrivarono Eriksson (sul quale preferisco non pronunciarmi), Jugovic e Mancini. Fu un’ottima scelta e i due, innestati su un gruppo già rodato, diventarono subito protagonisti conquistando la Coppa Italia, la seconda dopo quella vinta nel ’58, e arrivarono in finale di Coppa UEFA di Parigi contro l’Inter di Zamorano e Ronaldo che stravinse, ma parliamo di una squadra fortissima, la stessa cui fu tolto lo scudetto per il famoso arbitraggio di Ceccarini.

In campionato la Lazio fino ad aprile restò in corsa per il titolo, quando arrivò la sconfitta interna contro la Juve (e anche lì tra arbitro e Iuliano… meglio lasciar stare); psicologicamente il gruppo mollò per concentrarsi sugli altri due obbiettivi. Fu l’anno del “quattro su quattro voi manco col Viagra” per indicare il poker di derby vinti consecutivamente: insomma per noi tifosi, venuti fuori da un decennio nero e da anni con pochi acuti, si riprendeva a sognare e a vincere.

Nell’estate successiva arrivò Sinisa, uno dalla personalità forte, autentico leader in campo e negli spogliatoi, accolto però con un pizzico di pessimismo visto che pochi anni prima aveva vestito la maglia dei cugini. Fu lui con le sue prestazioni a smentire tutti giocando 30 partite e segnando 8 reti in campionato. Con lui arrivarono Stankovic, giovane di belle speranze dalla Stella Rossa di Belgrado, un altro importante perno difensivo quale Couto dal Barcellona, El Matador Marcelo Salas dal River Plate e, ciliegina sulla torta, Bobo Vieri dall’Atletico Madrid per 56 miliardi di lire più Jugovic. L’epilogo di quel campionato ancora oggi non riusciamo a digerirlo, rimontati e scavalcati dal Milan alla penultima giornata dopo che i milanesi, tra gol incassati annullati e regolari (Vieri contro di loro tanto per capirsi) e diverse partite svoltate a proprio favore oltre il 90°, riuscirono a restare in scia. Particolarmente grave fu il doppio passo falso contro la Juve a Roma e la sconfitta nel derby la domenica successiva con una squadra rabberciata dalle squalifiche. Quell’anno comunque arrivò il primo trofeo internazionale, la Coppa delle Coppe, vinta al Villa Park in un mare di bandiere biancocelesti tra la capocciata di Bobone e la perizia balistica di Pavel. E la Supercoppa Italiana, conquistata ad agosto al Delle Alpi contro la Juventus con un gol di motocross Conceiçào: c’era la consapevolezza di essere una squadra tra le più forti non solo in Italia. A mio avviso il gruppo più forte di sempre con un tasso tecnico elevatissimo, penalizzata fortemente dalle assenze per infortunio di Nesta (Mondiali ’98) e di Vieri in Coppa Italia, che rientrarono a gennaio e purtroppo alla fine pesarono molto i punti persi a inizio campionato in casa contro Bari, Vicenza e a Salerno. Comunque stava prendendo corpo il team che poi l’anno dopo avrebbe vinto lo scudetto. La svolta fu la dolorosissima, almeno a livello personale: la cessione di Bobo all’Inter (repetita iuvant, dopo quella di Massa nel ’72) che portò a Roma El Cholo Simeone e la Luce, Sua Maestà Juan Sebastian Veron.

Il mosaico, iniziato nel lontano ’96 con l’arrivo di un ragazzino della Repubblica Ceca, tale Pavel Nedved e sviluppatosi negli anni con gli innesti di Marchegiani, Ballotta (preziosissimo il contributo nella conquista del titolo), Negro, Pancaro, Nesta, Meo Amigo Conceicao e Simone Inzaghi, era completo per affrontare il duplice impegno campionato e Champions League. Nonostante il potenziale in campionato, la squadra zoppicava vistosamente (ahi Svennis…) mentre in Europa si andava a vincere anche in casa del Chelsea: partita che ci costò la qualificazione in prospettiva Valencia, tra cartellini gialli e l’espulsione di Couto. La stagione svoltò in positivo e in negativo nei primi giorni di aprile tra la vittoria al Delle Alpi contro la Juve e la scoppola di Valencia che in pratica ci estromise ai quarti della competizione europea, per la quale giova ricordare l’undici di partenza – Ballotta, Gottardi, Negro, Mihajlovic, Pancaro, Stankovic, Simeone, Almeyda, Veron, Nedved, Inzaghi – per accorgersi quanto la squadra fosse a ranghi ridotti e mal costruita da Eriksson. Nota da non sottovalutare, quel Valencia nel turno successivo eliminò il Barcellona perdendo la finale con i blancos di Madrid e anche l’anno successivo approdò in finale perdendola con un’altra potenza del calcio mondiale quale il Bayern Monaco.

L’uscita dalla C.L. scatenò le anime più toste del gruppo: la lite Simeone-Couto in allenamento fu un pallido ricordo e si puntò dritti alla ricerca della Juve che, va detto, fece lo stesso nostro percorso dell’anno prima, perdendo punti importanti per strada (sconfitta a Milano contro il Milan e contro l’Hellas a Verona) fino all’epilogo arcinoto di Perugia e del suo diluvio universale.

Un diluvio che da pioggia si trasformò in pianto di gioia a una manciata di chilometri più a Sud.

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