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Ciro Immobile una Lazialità “Naturale”

di Enrico De Lellis, Renzo Giannantonio.

Il Capitano e la Lazio, un amore che proseguirà fino al 2026.

Rappresentare una società di calcio non è semplice, incarnarne lo spirito profondo difficilissimo. Se poi si parla della Prima Squadra della Capitale il livello di complicazione schizza alle stelle.

Essere un simbolo è un sentimento nobile e puro. Che se non lo hai già dentro di te non basterà una vita a coltivarlo. È innato. Come la Lazialità, appunto.

Non per forza si deve nascere all’interno delle mura aureliane e tifosi della Lazio per assorbirne i valori e poterli rappresentare al mondo.

Certo, in città c’è chi sostenendo il contrario ci ha costruito un’epopea buona per le fiction, ma più che un reale discorso “etico” o di appartenenza sembra la consolazione per una bacheca che implora visitatori da tempo ormai immemore.

Immobile e la Lazio si sono trovati – accade anche nella vita reale nei casi più insperati e fortunati – nel momento del bisogno per entrambi. Si sono scelti, si sono riconosciuti. Perfetti l’uno per l’altra.

Lui mai una parola fuori posto, mai una mancanza di rispetto per avversari o arbitri (anche nelle due-tre occasioni in cui anche Gandhi al posto suo avrebbe imbracciato un AK47). E i numeri del campo a dargli ragione e gloria. Piola – la leggenda Piola – è a un passo, le corse sotto la Nord un “vizio” tanto bello da non poterne più fare a meno.

“Ai laziali ci pensano i laziali” è un motto caro alla gente biancoceleste e a maggior ragione per Ciro Immobile è andata (e va) proprio così. Da almeno un anno gli è stata dichiarata una guerra unilaterale velenosa e inspiegabile. Neanche troppo inspiegabile, a dirla tutta: certa stampa gode a insinuare e combattere con ogni mezzo battaglie politiche per conto terzi. E in guerra non si fanno prigionieri. Ecco perché c’è chi non si è fatto scrupolo (deontologia dove sei?) a spargere cattiverie contro l’uomo e il professionista, calpestando un ragazzo, un papà e un marito pur di riportare l’osso sotto il desco del padrone.

Ma non ha fatto i conti (oltre che con la realtà oggettiva dei fatti) con altri fattori. Dicevamo? “Ai Laziali ci pensano i Laziali”. Ecco allora tifo, squadra, staff tecnico, società tutti uniti attorno al loro condottiero ferito e infamato. In favore di Ciro non hanno parlato firme illustri né si sono levati gli scudi dei social “generalisti”. Ma come sempre hanno parlato i fatti. Il campo, i gol.

La Scarpa d’Oro, le classifiche dei cannonieri, le coppe alzate al cielo con il tifo biancoceleste festante. Anche quando fisicamente non c’era. Emozioni che non si possono spiegare (ma poi a chi? “Semmai qualcuno capirà / sarà senz’altro un altro come me”, cantava Rino Gaetano)
Al limite si può spiegare, almeno a quelli non in malafede, che – per dire – l’Europeo è stato vinto grazie, non “nonostante” Ciro Immobile.

La consapevolezza dell’appartenenza reciproca è cresciuta negli anni, e oggi si può dire a chiare lettere: Immobile è la Lazialità, con la maiuscola. Lo testimonia il suo sorriso, quello che ha quando corre a perdifiato e quando segna, quando affronta la vita, non solo quella calcistica, con la schiena dritta e l’aquila sul cuore sempre in bella vista. Sapendo che di rado gli verrà riconosciuto ciò che ha saputo conquistarsi col sudore e l’impegno, e che in tanti lo aspetteranno al primo rovescio per l’ennesimo “te lo avevo detto”.

Il rinnovo fino al 2026 significa che la fine della sua carriera da calciatore avverrà con la maglia della Lazio addosso. Immobile logora chi non ce l’ha – è il mantra delle radio laziali e dei social dei tifosi biancocelesti – e lo farà ancora a lungo. È ancora a metà del suo volo laziale. La verità è che ogni tifoso vorrebbe nella propria squadra del cuore uno come Immobile, anzi, magari proprio Immobile, ma non lo possono ammettere. Non possono perché hanno capito. Hanno capito che Immobile è Laziale. Non un calciatore della Lazio. Un LAZIALE.
E lo è sempre stato, fin dalle pallonate tirate in strada da bambino a Torre Annunziata, lo era già crescendo e vestendo maglie di vari colori. Lo era quando esultava e quando cadeva. Lo era prima ancora di rendersene conto perché si rialzava sempre, contro tutto e contro tutti. Esattamente come fa da quasi 122 anni quell’Aquila che fiera sorvola gioie e dolori, drammi e maldicenze.
Quando lui e il Sogno dei Ragazzi di piazza della Libertà si sono incontrati, nella benedetta estate di 5 anni fa, tutto è stato finalmente chiaro.

“La Lazio non è una squadra di calcio, la Lazio ti entra dentro, ti cattura, è lei che ti sceglie. E come i giovani figli di Sparta attrae a sé solo chi è disposto a soffrire, perché quando c’è la Lazio di mezzo non c’è mai nulla di facile”.

Lo ha detto tanti anni fa Felice Pulici,
un altro ragazzo nato a centinaia di chilometri dal Colosseo che quando ha incrociato i colori del cielo ha capito di essere approdato a Casa.

Prendete questa frase e appiccicatela sulla carta di identità di Ciro Immobile.
E alla voce “segni particolari”, aggiungete senza esitazione: Laziale.

 

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