Massimo Maestrelli è tornato a parlare del papà Tommaso, tecnico indimenticabile nel cuore dei tifosi per il primo storico Scudetto della Lazio del 1974. Ecco le sue parole ai microfoni de La Gazzetta dello Sport sull’arrivo a Roma, il rapporto con i giocatori storici e l’eredità che lascia un allenatore del genere.
Le parole di Massimo Maestrelli
“Forse Ranieri, altro uomo di ideali. Quando va a Leicester dopo il fallimento con la Grecia, deve aver visto qualcosa di diverso da una scommessa facile. E ha vinto. Anche quest’ultimo ritorno alla Roma dopo aver annunciato l’addio al calcio: non l’avrebbe fatto per nessun’altra squadra. Sapete che lui e babbo si conoscevano bene? Nel ’73, ’74, quando giocava nella Roma come difensore, veniva a vedere le partite da noi: io e Maurizio ci lamentavamo, non volevamo un romanista in casa, ma babbo lo stimava, erano diventati amici”.
Massimo Maestrelli sul padre Tommaso
“Io credo che babbo abbia fatto più da morto che da vivo, perché lasciare un segno così grande per 50 anni è qualcosa di troppo speciale. Ha vinto lo scudetto con la Lazio? Vero, ma ogni anno un tecnico vince, in pochi restano davvero nel cuore della gente come lui. È qualcosa di più grande. Babbo si è sempre esposto. A Reggio fece dichiarazioni forti perché la città era divisa dalla battaglia tra due clan. Un giorno lo prelevarono e lo portarono in campagna a incontrare un superlatitante in una casetta abbandonata. Lo ringraziò perché le sue parole avevano riportato la pace”.
E sull’approccio alla Lazio dice:
“A Roma girava con l’Alfa Romeo 1750, i giocatori lo prendevano in giro. Wilson aveva la Rolls Royce, D’Amico il Mercedes Pagoda, non le parcheggiavano vicino alla sua perché dicevano che prendevano il tetano. Non era legato alle cose materiali e lo dimostrava con i fatti. A D’Amico, che era ragazzino, tolse le chiavi della macchina e sospese lo stipendio per insegnargli a non alzare troppo la cresta. Sempre. E volevano dimostrargli di essere migliori degli altri. Soprattutto alla Lazio erano in perenne conflitto e lui non li ha mai fermati. Diceva che nella libertà di espressione, anche dei propri difetti, scocca la scintilla: le forti personalità si devono scontrare per tirar fuori il meglio e il peggio di loro”.
Il carattere, il rapporto con Chinaglia e non solo
“Era libero. E aveva una predisposizione per i rapporti umani: se a Reggio Calabria arrivava un giocatore nuovo, lui alle dieci di sera andava a prenderlo in stazione, per tranquillizzarlo. Chinaglia era sempre da noi. Avevano un rapporto bellissimo, faceva parte della famiglia. Per questo ho voluto riunirli, è stato complicatissimo, ma era necessario: ora sono sepolti insieme, a Prima Porta. Mi dà tanta serenità. Babbo poteva morire durante la prima operazione, invece è rimasto in vita per salvare la squadra: la gara che ha deciso la permanenza in A, quella di Como, è stata ancora più bella dello scudetto. Penso abbia dato la sua vita per salvare la Lazio. Ed è una cosa di cui sono contento e grato. Sarebbe impazzito, si sarebbe fatto anche dei sensi di colpa. Come fai a spiegarti una cosa così?”.