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Editoriali

Sinisa, in memoria del mio primo amore

Lazio - Bologna, Sinisa Mihajlovic sotto la Curva Nord

Di Micaela Monterosso

Avevo 10 anni quando Sinisa è arrivato alla Lazio. Nel ’98 di calcio ne capivo poco e niente (non che ora la situazione sia migliorata, ma almeno avevo l’attenuante dell’età). Ricordi vaghi, anche dovuti al fatto che il calcio non si vedeva come oggi. Pochi minuti a riassumere partite intere e forse era anche più bello, ma questo è un altro discorso. Ricordo le sue punizioni, quelle sì. Non ne sbagliava una neanche bendato. Ricordo anche che avevo uno di quei libretti promozionali che simulava la punizione di Sinisa. Oggi si chiamano flipbook. Nel 1998, a 10 anni, erano semplicemente i “libretti che si muovono se li sfogli velocemente”. L’ho consumato, letteralmente. Lo tenevo sotto al cuscino. Lo regalavano insieme alle scarpe da ginnastica, credo, non so. So che mi ha accompagnata per svariato tempo e che ha reso Sinisa una delle pietre miliari della mia memoria biancoceleste.

I primi amori di un tifoso sono così: inspiegabili, irrazionali e completamente scollati dalla realtà. Per chi dice che è solo un gioco, che i giocatori vivono in un mondo a parte e che non meritano tanto amore, non so dare una risposta. La più giusta è, probabilmente: “beati voi che non sentite quello che sento io.” Vivono senz’altro meglio, a pensarci bene. Oggi – ad esempio – non sentono questo vuoto e questo dolore potente come se fosse il loro. Sinisa è stato il mio primo amore. Non saprei definirlo in maniera diversa. E se è vero che lui neanche sapeva della mia esistenza, io posso dire di avere – in qualche modo – vissuto la sua. L’ho seguita, ho gioito nelle vittorie e sofferto nelle sconfitte. Ho continuato ad adorarlo, negli anni, perché – in fondo – questo suo carattere sanguigno, quel suo dire sempre quello che pensava e litigare un po’ con tutti appartiene anche a me.

Ricordo la conferenza stampa in cui ha annunciato la leucemia come la più dolorosa da seguire, fin qui (da redattrice, si intende). Scrivevo e piangevo. Un loop infernale. Per quanto comprendessi l’irrazionalità della situazione, non riuscivo a smettere di piangere. Sarà che quella malattia l’ho vissuta da vicino e so cosa significhi una diagnosi come quella. Sarà che gli uomini come lui sono sempre visti come invincibili, giganti e che – forse – l’idea che avevo di lui da bambina, è rimasta sempre la stessa. Lui era Sinisa. Non poteva succedere a lui. Non così presto. Passano i mesi da quella conferenza; lui combatte, si illude e ci illude che il peggio sia passato. Non si sottrae al suo pubblico e quando torna all’Olimpico la festa è tutta per lui. La partita – quel giorno – era completamente irrilevante. Quando esce il suo libro lo leggo in due giorni e giù lacrime, di nuovo. Come se fosse seduto accanto a me e mi stesse raccontando la sua vita. Però credevo – speravo – che fosse tutto finito e che quel libro sarebbe rimasto nella mia libreria come un inno alla vita che, nonostante tutto, gli aveva concesso una seconda possibilità. E ne aveva ancora di cose da fare, da dire… Fino all’esonero del Bologna.

Pochi – pochissimi – hanno colto in quel gesto la necessità di liberare un uomo che fisicamente non ce la faceva più, ma che voleva preservare la dignità e non cercare compassione nel prossimo. Il gesto del Bologna poco c’entrava con le prestazioni in campo della squadra. Nessuno avrebbe esonerato Sinisa dopo quanto ha dato alla squadra e alla città. È stato un atto d’amore, nulla di più. Col senno di poi è facile capirlo. Allora, in molti non erano pronti. Forse non lo siamo neppure adesso. Oggi mi sento sinceramente stordita. Come se avessi preso un pugno fortissimo e non avessi fatto nulla per meritarmelo. Lo sospettavo, ma non credevo che sarebbe successo davvero. Non così presto. Non a lui. Dire che la vita è ingiusta è di una banalità devastante e non sono qui per scrivere banalità. Nessun epitaffio ipocrita, semplicemente perché credo che lui non lo avrebbe voluto. Era uno stronzo, Sinisa, e lo sapevamo, ma gli volevamo bene proprio perché era questo. Almeno io. 
In questi casi, più che raccontare aneddoti che – purtroppo – non ho, posso ringraziare Sinisa per quello che mi ha dato, pur non sapendolo. E promettere di continuare a litigare con il mondo, come faceva lui, senza abbassare mai la testa. Una piccola postilla: il mio – nostro – dolore non può essere minimamente paragonato a quello di chi lo ha vissuto; il pensiero va inevitabilmente ad Arianna e ai suoi figli. Non siamo sullo stesso piano, non mi permetterei mai neanche di pensarlo. Però una cosa posso dirla: quel Dio secondo il quale quando va tutto bene è grazie a lui e quando va tutto male è colpa tua, questa volta qualche colpa se la deve prendere.

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