Ottavio Bianchi ha rilasciato un’intervista a La Stampa, dove ha parlato del Coronavirus, lanciando qualche frecciatina al mondo del pallone.
Quello che sta vivendo Bergamo è un autentico dramma: centinaia di morti per il coronavirus. I giornali locali con decine di pagine di necrologi. I morti portati via sui camion dell’esercito. Un figlio (adottivo) di Bergamo è Ottavio Bianchi, l’allenatore che ha guidato il Napoli al primo scudetto della storia azzurra a metà degli anni ’80. L’uomo che ha vissuto l’epopea di Diego Maradona nel capoluogo campano. A Napoli lo ricordano pure per aver vinto la Coppa Uefa e la Coppa Italia.
“Vedo le bare sui camion e piango. E mi domando: perché la mia Bergamo? Meno di un mese fa mi chiamavano per parlare dell’Atalanta, ora ricevo telefonate da amici e conoscenti dell’Ungheria, dell’Argentina e della Russia per sapere innanzitutto se sono vivo. E come riusciamo a tirare avanti. Le persone muoiono e nel calcio si parla di calendari: sono alieni.
Sono qui da solo, a Bergamo Alta, ho dovuto rinunciare alla signora che dava una mano in casa. Non posso vedere i miei figli, mi lasciano da mangiare e qualcosa da leggere sul pianerottolo. Non ero uno da pianti, ora le lacrime arrivano a tradimento. Mi chiedo perché migliaia di morti che se ne vanno da soli, senza il conforto di una mano, di uno sguardo.
So cosa vuol dire essere in rianimazione, intubato, mi è successo qualche anno fa di essere appeso a un filo. E mi sembravano eroi già allora quelli che mi assistevano 24 ore su 24: oggi lo sono per tutti, ma intanto li hanno mandati in guerra disarmati e quanti ne muoiono a loro volta per salvare gli altri.
Poi senti i parolai: abbiamo ordinato questo, abbiamo ordinato quest’altro, anche io ordinavo di vincere quella partita, ma erano per l’appunto parole. Un giorno qualche risposta ce la dovranno pur dare, i parolai, quelli che hanno tagliato la sanità pubblica per cominciare. E la dovranno innanzitutto a questi eroi che rischiano la loro vita sino allo stremo delle forze”.